La storia di Zenobia
Breve rappresentazione teatrale “La Fanciulla di Zena” avvenuta il 3 giugno 2018 sotto la direzione artistica di Bruno Stori con l’interpretazione di Linda Lambertini, coordinato dall’associazione Parco Museale della Val di Zena.
Il tutto si è svolto nel parco adiacente al Castello di Zena, in una suggestiva cornice che ha coniugato Natura e Architettura antica in modo surreale.
Zenobia
Nacqui Zenobia Ghislieri, di Sigifredo figlia e di donna Rachilde Foscherari, al Castello di Zena, nell’anno 1065, per mano della levatrice di corte.
Fui una bambina felice.
La sola nel grande maniero.
Ogni sorriso, carezza, lusinga, attenzione furono riservate a me.
La vita scorreva tranquilla al ritmo delle stagioni, lo spettacolo incantato della valle fungeva da scenario per le mie puerili avventure.
Il silenzio ovattato del bianco inverno cullava le mie letture davanti al camino e le mie lezioni di ricamo.
E all’esplodere della primavera il Castello nasceva, ogni anno, a nuova vita.
Come nobile fanciulla fui istruita nella letteratura e la fine poesia, appresi la musica e il raffinato cucito, mi applicavo con obbedienza e dedizione, seppur sempre in trepida attesa delle mie ore di libertà.
In quei momenti, soltanto miei, esploravo ogni anfratto del maniero, beniamina di ogni domestica o uomo di bottega.
Giù al forno mi recavo di primo mattino, il profumo del pane come calda coperta. Ogni lavorante del castello attendeva la mia visita, e regali, canzoni, passeggiate, ogni giorno attendevano me.
Da ognuno di loro imparai la vita.
Dal fabbro a coltivar umiltà e perseveranza, dalle cuoche che cucinare è un gesto d’amore prima ancor che un’arte.
Ma il mio vero diletto, stava nei miei pomeriggi solitari. La mia Fantasia galoppava verso reami lontani, tra le meraviglie che la valle offriva ai miei sensi… Draghi e fate i miei compagni di gioco.
Ancora ricordo poi, le rare occasioni in cui, in carrozza, con la madre mia, lasciavo il castello, in visita a una certa dama, o a compiere speciali commissioni, di cui non mi era dato sapere, ma al mio cuore di bambina non premeva niente di più che saziare gli occhi e la mia vorace curiosità con tutto ciò che il mondo aveva da mostrarmi.
Le mie fantasie dei meriggi estivi, col passare del tempo, cominciarono a popolarsi di bellissimi principi, avventurieri, cavalieri dall’armatura splendente… ed ognuno di loro, altro non chiedeva di poter amare la principessa Zenobia.
Ed un giorno, uno di essi giunse da me. Ancora ricordo l’attimo in cui i miei occhi incontrarono quelli suoi… Sigerio de’ Cossi, di Bernardo figlio e di Azzone nipote, giunse accompagnato dal padre un pomeriggio di Maggio, il suo sguardo mi colse trafelata e con le chiome scomposte dal vento, mentre di corsa tornavo al castello, in ritardo per l’ora della preghiera.
Mai potró dimenticare ciò che mi prese in petto quando vidi i suoi occhi su di me posati. Riconobbi all’istante, in lui, il mio principe, l’eroe che veniva per me… le mie gote presero il color delle ciliegie mature prima che io potessi controllarle, il saluto che ero tenuta a pronunciare non uscì dalla mia bocca, riuscii soltanto a correre dentro una porta di servizio e sbatterla forte dietro di me.
I giorni successivi furono puro fermento, Sigiero ed il padre si erano recati a Zena per chiedere la mia mano al padre mio, e era tutto ciò che io avessi mai potuto desiderare.
Ma il signor padre mio espresse il suo diniego, la famiglia de’ Cossi era ghibellina militante, e che nessuno avesse mai a dire nella valle che Sigifredo Ghisleri, guelfo fedelissimo di Sua Santità, avea concesso la sua unica figlia a gente di tal fatta.
La mia infinita tristezza non fu la mia punizione peggiore… fui segregata nel Castello, senza il permesso di varcarne i cancelli, mai e per nessuna ragione.
La mia tanto adorata dimora divenne la mia prigione.
Le mie giornate trascorsero apatiche tra sospiri e lacrime, nello sforzo di non dimenticare, giorno dopo giorno, quegli occhi timidi che annegata mi avean in un mare di tenerezza.
Le mie notti insonni.
E fu durante una di codeste notti che la mia fine ebbe inizio. Uomini rudi e silenziosi, col volto coperto, dal mio giaciglio mi strapparono con forza e, con la testa incappucciata, fui condotta via velocemente, complice l’oscurità delle notti di Zena, ed il mio assoluto silenzio, mai un grido, mai un lamento, mai una sola parola uscì dalla mia bocca per tutto il tempo della mia atroce prigionia.
La mia mente, con la Grazia di Nostro Signore, quasi tutto rimosse, segregando quei lunghi mesi di agonia in un mondo parallelo che, nelle ore di veglia, mai più raggiunse la memoria mia.
La notte, però, gli incubi peggiori venivano a farmi visita, in essi alcuni lampi di ciò che fu la mia prigionia.
Voci di uomini, urla e schiamazzi, odor di vino e muffe di mattoni… come quando, dopo aver convinto il vignaiolo, riuscivo a sgattaiolar con lui nelle buie cantine del castello, e la mia immaginazione volava inquieta… il buio, sempre buio e penombra. Tanto freddo….le mi membra mai più si son potute riscaldare, quel freddo divenne la sostanza stessa delle mie fragili ossa. Lunghi viaggi, ore interminabili gettata su un carro, e non parevano vie quelle che percorreva, ma cavedagne sassose e sconnesse… il dolore divenne parte solida del mio corpo.
Favelle straniere, non comprendevo parola.
Dolore e paura.
Il mio mondo era dentro di me.
Chiusa e muta.
In attesa che il mio principe venisse a salvarmi.
E il principe, al finale, arrivó.
Ma colei che trovó non ero più io. Non più la fanciulla dolce e delicata, graziosa e gentile, come un tempo si diceva di me… non più la giovane donna spensierata di campagna. Tutta me stessa debbo al mio adorato Sigerio, che trovatosi dinnanzi niente più che l’ombra di Zenobia, ugualmente mi volle per sua sposa. Patita. Violata. Inferma. Morente. Sigerio mi sposó. Tale grazia ricevetti non da mio padre, non da padre e nonno del mio amato, non da nessun uomo su questa Terra, chè essi non ne sarebbero capaci. Ma da una donna, potente e gentile come solo donna può essere, Matilde di Canossa, che mossa da pietate per i nostri tristi destini, condusse l’opere che favorirono il mio ritrovamento e le mie nozze.
Tra le braccia di Sigerio la mia anima si placó infine e fu libera di lasciare quel corpo torturato nelle carni e nello spirito.
E grata in eterno sarà a donna Matilde e a Sigerio, l’Amor mio.
Linda Lambertini